
È la storia di Mario Cresci (Chiavari, 1942), un autore che ha esplorato senza sosta ai confini del linguaggio fotografico.
L'indagine è eclettica. Spazia dal disegno al video all’installazione.
Il racconto parte dagli studi di design a Venezia, esperienza condivisa con altri fotografi della sua generazione, come Guido Guidi.
Passa poi a una pratica in studio da Gae Aulenti a Milano. Nel 1969, alla galleria Diaframma di Lanfranco Colombo a Milano, è tra i primissimi a concepire un'installazione fotografica, un ambiente attraversato da un migliaio di cilindri trasparenti che imprigionano altrettante immagini fotografiche.
Documenta poi la scena romana attorno alla Galleria L'Attico a Roma di Fabio Sargentini da fine anni Sessanta; ma anche quella dell'arte povera sbarcata nella capitale allo Studio d'Arte Arco d'Alibert di Mara Coccia (i suoi scatti sono conservati nell'archivio dell’Istituto Nazionale per la Grafica, a Palazzo Poli).
Due mostre raccontano oggi la sua opera.
Fino al 10 gennaio "La luce, la traccia, la forma" è alla Fondazione Modena Arti Visive, a Palazzo Santa Margherita, curata da Chiara Dall’Olio. Affiora qui con determinazione anche l'interesse per l'incisione e il segno, oltre alla vastità di sperimentazioni tecniche associate alla fotografia e confluite nella sua opera.
Se la distinzione tra arte e fotografia appare ormai obsoleta, come ci racconta nell'intervista; si può dire che l'autore si muova attraverso la storia dell'arte avendo come oggetto della sua ricerca una più ampia definizione del concetto di veridicità racchiuso nel linguaggio fotografico, accompagnato da una sua sistematica confutazione.
Fino al 20 febbraio un altro focus gli è dedicato dall'ICCD a Roma (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione), con la personale L’oro del tempo.