Racconti d'artista. Leggere l'arte nella luce, la traiettoria unica nel bianco e nero di Giorgio Colombo

Nella Milano degli anni Sessanta, Giorgio Colombo (Milano, 1945) si formava da pittore. La carriera d’esordio era da grafico. Lavorava all’Olivetti, accanto a Ettore Sottsass.

Ma a Roma, durante il servizio militare, il destino lo conduceva a condividere la branda a castello della camerata con un altro poeta dell'essenzialità come Ettore Spalletti. Da allora il dialogo stringente con questo interprete di una modulazione astratta tra pittura e scultura lo avrebbe accompagnato. Ed è in questi anni di formazione a innescarsi la duplice passione per l’arte e per la fotografia, alchimia che trasforma presto Giorgio Colombo in uno dei più grandi interpreti della fotografia d'arte.

Colombo era parte di una temperie condivisa tra altri fotografi-intellettuali milanesi del secondo Novecento, negli anni in cui Milano era in fondo una capitale della fotografia. Tra i pionieri a documentare l'arte erano stati prima Dondero e Mulas, subito seguiti da Johnny Ricci, da Antonia Mulas, Enrico Cattaneo, Carlo Orsi, Maria Mulas.

Eravamo quattro gatti a quelle mostre. Le opere andavano tutte invendute e sparivano in poche settimane perché effimere. Documentarne il passaggio era un affare urgente.

Per questo oggi il suo archivio è un giacimento prezioso. Documenta mostre dalle opere più effimere e performative di quegli anni nelle gallerie milanesi, di cui non è rimasta altra traccia che le sue fotografie, uno sguardo che ci conduce nelle sale di Apollinaire, di Toselli oppure di Salvatore Ala.

Ma documentare è solo una delle funzioni assolte dalla fotografia, come spiega Giorgio Colombo, che sa dosare nel fluire del bianco e del nero, nelle gradazioni infinite dei grigi, il senso più profondo dell’opera.

L'obiettivo era sempre cogliere nella fotografia la profondità, la metafisica della luce, l’esperienza irripetibile dell’opera d'arte. E poi c’era la stampa, sempre unica, mai demandata ad altri.

Il suo obiettivo, non è quindi tradurre l’opera d'arte in una foto, ma coglierne il senso. Ed è questa evidenza a spingere Giuseppe Panza di Biumo a considerarlo uno dei suoi artisti, più che il fotografo della collezione, dal 1975 al 2005.

Il fotografo, di fronte a un'opera d'arte, è come un pianista a interpretare un brano di Chopin. Non basta leggere le note e battere i tasti. Deve capire cosa voleva dire l'autore.

Giuseppe Panza di Biumo

A raccontare il dialogo tra il suo sguardo e le opere della collezione sono state, nell'estate 2022, le 113 fotografie  raccolte nella mostra “Giorgio Colombo – Fotografie dalla Collezione Panza 1975 – 1992”.

L'esperienza a Villa Panza ci conduceva nel dialogo silenzioso tra fotografo e collezionista, come nelle vastità tonali del bianco e nero di Colombo. Oggi quell'esperienza continua a vivere nel suo perfetto compendio, un poderoso volume dalla stampa accuratissima (Magonza editore). 

Quali incontri si sono rivelati fondamentali nell’introdurla al mondo della fotografia? In quale contesto si è formato?
Qual è stato il suo rapporto con le gallerie d'arte? Quali esperienze e urgenze l'hanno avvicinato a questo mondo?
Per oltre trent’anni si è occupato di documentare la collezione di Giuseppe Panza. Cosa ha cercato di cogliere in quelle opere?

Fotografia di Mario Peccol.

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