Un autore fuori dalle rotte, misterioso per vastità di ricerca e a lungo dimenticato dalla critica e dalla storia dell'arte.
Le sue sperimentazioni potrebbero ricordare l'opera di Meliès oppure di Moholy-Nagy, ma hanno un accento personalissimo.
Con esordi nella pittura informale, Piero Fogliati (1930-2016) è cresciuto nell'ambiente torinese dei primi anni Sessanta, per scegliere una sua personalissima strada nella scultura.
Fin da subito è ben distante dalle linee guida poveriste dei colleghi, ma anche da quelle astratto-cinetiche a cui più spesso viene associato.
La sua scultura, che ha a lungo condiviso il campo di sperimentazione con il teatro di Arrigo Lora Totino, mira a cogliere e imprigionare la luce, ma anche il movimento, si potrebbe dire la vita.
Per questo si anima, gorgoglia, addirittura respira.
Non importa se la suggestione è umana o animale, reale o virtuale, le sue creature meccaniche e cinetiche concretizzano evanescenti apparizioni.
Riflessi e oscillazioni materializzano un percorso visionario che arriva a immaginare creature a scala urbana in una Città fantastica, una scultura nel paesaggio che si animasse con la mutevolezza del tempo, del sole, del vento, perfino della pioggia, immaginando gocce colorate a cadere su di noi.
Alla scoperta di questa ricerca ci conduce il gallerista che ne segue l'opera, Andrea Sirio Ortolani della milanese Osart.